“Che ci fai qui Claudio?”
“che ci fai qui te, Gianluca!”
Ci conoscevamo già da tempo, compaesani fornacini, il grande Tronca amico del Cencio, del Claudio mì cugino, fratello del Nicola che era in classe con me alle medie, figlio maggiore della Renza che, pur non avendola mai avuta a scuola come maestra, conoscevo lo stesso piuttosto bene.
Il Tronca, quello che quando io ero bimbetto, lui dieci anni di più –neanche tanti, ma a quelle età scolari facevano la differenza- quello grande della combriccola del mì cugino, figliolo della Lisi -sorella dello Zimbo– e del Vitaliano, puntualmente si presentava a portare allegria verso la fine del pranzo tradizionale di Capodanno che la Lisina allestiva con la maestria che solo lei possedeva.
Di quei pranzi ricordo poche cose: l’allegria familiare, il profumo dei famosi crostini che la Lisi preparava con imbattuta perizia e, appunto, I fragorosi ingressi del Tronca che veniva a portarsi via il Claudio (non io, quell’altro. Della fantasia della mia famiglia nell’affibbiare nomi parlerò poi. Per la cronaca anche mi pà si chiamerebbe Claudio) per le loro scorribande giovanili di inizio anno.
Il Tronca, che poi a me quel soprannome pareva anche un po’ offensivo, perché a me non sembrava già allora solo uno che spaccava porte ma uno che sapeva il fatto suo, nascosto dietro quell’allegria e quell’ottimismo che per fortuna possiedo anch’io e che, forse, devo anche a lui. Troncausci, perché la leggenda narrava che alle Scuole Elementari una volta avesse chiuso –o aperto, non si sa- una di quelle grosse porte pesanti di legno delle aule, troncandola per l’impeto messo nell’azione.
Il Tronca,che nonostante il soprannome si era iscritto a Veterinaria a Pisa e si era anche laureato, in barba a chi pensava fosse solo un simpatico guascone rompiporte.
Il Tronca, che era il veterinario del mio primo cane, la Elly, che veniva a visitare a casa portando professionalità e sorrisi alla mia mamma. È anche colpa sua se alla fine ho scelto di fare il suo stesso mestiere.
Il Tronca, che al mio matrimonio si mise a cantare offrendo divertimento per tutti, dandomi ancor di più l’orgoglio di averlo come amico.
Perché io a Gianluca devo anche molto, ma questo si capirà più avanti. O lo sapete già?
“Eh, son venuto a prendere l’originale della laurea e dell’attestato di abilitazione professionale perché ho vinto un concorso alla USL. E te?”
“io Sono venuto a presentare la mia tesi di laurea, son quasi in fondo ormai”
“Allora te finisci presto e poi vienimi a trovare per imparare la professione, che poi si vede”
Era il 1992. Mi laureai in luglio e da subito iniziai a frequentare il suo Studio a Bagni di Lucca. Imparai tutto da lui, a fare meno errori possibili e a riconoscere le principali malattie degli animali che venivano portati a visita.
Mi portava anche nelle stalle, a fare visite e prelievi. Ricordo una stalla in alta Garfagnana dove mi insegnò a prelevare il sangue dalla vena caudale delle vacche.
Era facile. Passai l’esame, anche se puzzai di merda di vacca per giorni, visto che alcune di esse per ringraziarmi di averle prese per la coda mi cacarono simpaticamente addosso.
Avete presente dei getti di alcuni chili di quella roba lì? Ecco.
Mi testava. Nel contempo ci raccontavamo, si chiacchierava, diventammo amici.
Spesso rimanevamo fuori oltre l’orario e andavamo a fare le visite domiciliari notturne.
Qualche volta ci presentavamo a casa della gente anche alle dieci, dieci e mezzo di sera.
Il bello è che non ci buttavano mai fuori, anzi, ci aspettavano comunque fino a tardi.
Erano altri tempi.
Altre volte ce ne andavamo a magiare una pizza da Vinicio, dove famose erano due cose:
la pizza e i giganteschi litigi tra Vinicio e suo figlio, con moccoli e piatti che volavano ad altezza testa.
Oppure al Caffè Del Sonno. Più tranquilli lì, come il nome del locale, oppure rimanevamo direttamente a mangiare a casa di chi ci chiamava per una visita a casa del proprio cane o gatto.
La gente di Bagni di Lucca, Fornoli, Crasciana, Casabasciana, Brandeglio, San Cassiano, Montefegatesi e di tutti gli altri paesini vicini l’ho conosciuta così. Col Tronca.
Era bravo con i pazienti, era bravo con i loro padroni. Gli volevano bene e si vedeva.
Non trovava mai la via per tornare a casa.
Qualche volta gli prendeva sonno e allora si fermava con la macchina a mezza via, si faceva una dormitina di un paio d’ore o più e poi riprendeva la strada di casa.
Nel contempo l’Annamaria, la moglie, aveva già allertato la Misericordia, i Pompieri, la Stradale e aveva telefonato ai vari bar tra Bagni di Lucca e Castelnuovo per sapere se Gianluca fosse passato da lì.
Se in Italia ci fossero state le Giubbe Rosse avrebbe chiamato anche quelle.
Ma lui era fatto così. Tornava a casa, un sorriso, una litigata di quelle bianche e tutto tornava a posto.
Ah già, allora i telefonini erano solo per i cittadini. Bei tempi.
Nel periodo in cui lavorò come libero professionista era maledettamente bravo, in un periodo in cui la veterinaria era soprattutto visita clinica, termometro e microscopio lui era un ottimo clinico.
Anche un grande insegnante, le mie basi ed oltre le devo a lui. Poi diventò la norma anche per me, ma rimanevo affascinato quando con la sole cose che gli raccontavano i proprietari di animali al telefono, già sapeva di cosa si trattasse.
“vai su dalla Piera a Vallico Sopra, ha un maiale che non mangia con delle macchie rosse sulla pelle. Misuragli la febbre, se ce l’ha è malrossino, fagli una puntura di Tylan e lasciale il flacone”
“Vedi questa cagna? Non mangia, beve tanto, è andata in calore due mesi fa, ora ha le perdite. Se non è piometra questa smetto di fa il veterinario!”
Il suo modo di insegnare il suo sapere, mai supponente, sempre positivo, sempre umile e sempre pronto a mettersi in discussione non erano da tutti.
Ho avuto la fortuna di capitare nel posto giusto al momento giusto. Uscito dall’Università, lui aveva appena vinto il concorso alla USL ed aveva bisogno di lasciare l’attività liberoprofessionale.
Con la sua solita semplicità mi disse se volevo rilevare il suo ambulatorio. Ora immaginate uno che si, va ad imparare il mestiere da un collega, ma che non ha idea di cosa farà nell’immediato perché non ci ha ancora pensato o non ci vuole proprio pensare, e si sente dire se voglio il suo ambulatorio, già ben avviato e con clientela numerosa.
“Si, ma come faccio a pagarti?”
“Non c’è problema, mi paghi piano piano con i profitti dell’ambulatorio, io ti affianco per un paio d’anni così conosci tutti mentre diventi un bravo veterinario”.
Gianluca era così. Semplice, positivo ed altruista. Ed andò proprio così.
Fummo colleghi instancabili fino al 1997 circa, anno in cui finì il suo percorso di affiancamento con me e mi lasciò aprire le ali da solo. E mi mancò già lì la sua presenza.
Nel frattempo mi ero sposato e del suo spettacolo canoro ho già detto, che se non fosse stato per la moglie che lo moderava sarebbe ancora lì a cantare con tutti.
Per tutti quegli anni il suo più fedele amico era il Doc, un Breton maschio che ha lasciato più figli lui in Mediavalle e in Garfagnana che il Dr Viglione ai tempi d’oro.
“Gianluca, c’ho un cane qui che mi sembra il tuo, io è tre giorni che gli d da mangiare e son tre giorni che mi tromba la cagna. Lo vieni a prendere?”
“Eh si mi sa che è il mio, son giusto tre giorni che m’è scappato, domani lo vengo a prende, ‘un ti preoccupà!”
Ci rido ancora.
Dopo ci vedevamo più di rado, ma andavamo ogni tanto a mangiare qualcosa assieme oppure ci vedevamo in giro per lavoro, lui per l’ASL, io per le mie domiciliari, oppure a cena con le rispettive mogli.
E ancora lo andavo a vedere ed ascoltare nelle sue attività teatrali, che aveva intensificato avendo più tempo libero da dedicarci.
Ci vedemmo poi per una occasione ufficiale, verso metà 2013. L’Ordine dei Medici Veterinari di Lucca, di cui sono tuttora consigliere, aveva deciso di dare un premio “alla carriera” ai laureati da trent’anni. Naturalmente pretesi che il suo premio glielo consegnassi io, che gli dovevo così tanto.
Quel gesto simbolico mi parve molto bello.
Sapevo già che gli era stato diagnosticato un linfoma, quella sera ne parlammo un po’, con fiducia verso le terapie che avrebbe intrapreso da lì a una settimana.
Stava bene.
Solo poche settimane fa la signora Anna, la segretaria storica dell’Ordine nonché conoscente trentennale di Gianluca, mi disse che in quell’occasione lui gli confidò cheormai ne aveva per poco, visto quello che aveva.
Era ottimista ma era anche lucido.
Nell’ultimo anno Gianluca ha avuto alti e bassi con le terapie. Quando sembrava che tutto fosse andato per il meglio però un crollo delle sue difese con febbre persistente ne richiesero un nuovo ricovero, a Castelnuovo prima e poi a Lucca, al San Luca.
Era poco prima di Natale 2014.
A Castelnuovo lo trovai sempre combattivo, in cuor suo sapeva che sarebbe stato molto difficile ma non disperava di uscire anche da quella situazione.
Ad un certo punto lo chiama al telefono la mamma, la Renza: “come vuoi che vada,mamma? Male”
Da fuori feci finta di nulla, da dentro in quel momento sono morto io. Era la resa.
Un aggravamento la sera stessa lo portò appunto in terapia intensiva al San Luca, dove ha resistito un’altra decina di giorni.
Lo andai a trovare per Santo Stefano.
Era stanco, visibilmente provato ed incredulo di avere così poche forze, perché finché si è vivi non si pensa mai di morire.
Gli altri muoiono, non noi.
Era sempre lui, ma gli occhi erano stanchi, lucidi, forse sopraffatti.
Abbiamo chiacchierato un po, in quella stanza piena di monitor, ma comunque spaziosa e paradossalmente accogliente.
Credo fosse contento che ero andato a trovarlo.
Mi ha lasciato con un “Grazie Claudio”.
Grazie a te Gianluca, di tutto.